Multinazionali alla sbarra: gli interessi dell'Italia

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Maggio 2021

L’esordio dell’imposta nazionale sui colossi digitali, varata dopo molte esitazioni anche nel nostro paese, è stato assai deludente per l’erario. All’appuntamento del 16 marzo scorso con la nuova “web tax” tricolore si sono presentate 49 società, ma al Mef si aspettavano dal primo versamento un gettito intorno ai 700 milioni di euro: ne sono arrivati 233 nonostante un’aliquota al 3% applicata direttamente su alcune classi di ricavi.

La legge prevede che sono soggetti passivi dell'imposta coloro che nell’anno solare precedente:

·       realizzano, ovunque nel mondo, singolarmente o congiuntamente a livello di gruppo, un ammontare complessivo di ricavi non inferiore a 750 milioni di euro;

·       percepiscono nel medesimo periodo, singolarmente o congiuntamente a livello di gruppo, un ammontare di ricavi da servizi digitali non inferiore a 5,5 milioni di euro nel territorio dello Stato.

L'imposta si applica ai ricavi derivanti dalla fornitura di una serie di servizi digitali:

·       veicolazione su un'interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia;

·       messa a disposizione di un'interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi; 

·       trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall'utilizzo di un'interfaccia digitale.

Ai fini della determinazione della base imponibile non vanno considerati i ricavi derivanti dai servizi digitali resi a soggetti, sia residenti sia non residenti nel territorio dello Stato, che si considerano controllati o controllanti.

I ricavi sono definiti al lordo dei costi sostenuti per la fornitura dei servizi digitali, al netto dell’imposta sul valore aggiunto e di altre imposte indirette e si considerano imponibili se realizzati nel territorio dello Stato.

Ispirata a una proposta di direttiva del 2018 della Commissione europea concepita per tentare di imbrigliare i “big player”  dei servizi digitali che finora sono riusciti a sfuggire alla tassazione tradizionale fondata sulla residenza delle sedi legali e operative sul territorio nazionale, la nuova architettura impositiva italiana nasce con un orizzonte temporale già segnato.

La “dead line” dovrebbe arrivare a luglio, quando verranno a maturazione due iniziative di riforma  fiscale parallele e complementari. L’Ocse presenterà dopo molti tentennamenti il nuovo progetto di imposizione globale sui profitti delle multinazionali, comprese quelle che operano sul web. Ma l’Unione europea ha fatto sapere poche settimane fa che non rinuncerà alla facoltà di tassare autonomamente i grandi gruppi digitali e ha annunciato una proposta di modifica della direttiva del 2018 che dovrebbe essere presentata nello stesso periodo in cui i paesi del G20, sotto la presidenza dell’Italia, si riuniranno a Venezia per ratificare l’accordo – quadro raggiunto in sede Ocse.

 

La trattativa Ocse

Nell’impianto della nuova “web tax” italiana si ritrovano tutte le tematiche, i punti di forza ma anche i difetti, che costituiranno i nodi da sciogliere nella discussione, partita nel 2013, al tavolo di Parigi dell’Ocse. I paesi riuniti dall’Organizzazione per la cooperazione  e lo sviluppo si sono dati l’obiettivo di mettere a punto una legislazione comune che chiuda tutti i varchi normativi e le sponde statali dell’elusione fiscale, praticata dai grandi gruppi sul piano mondiale e che determina una perdita di gettito annuale per i bilanci pubblici di almeno 240 miliardi.

In attesa di quella riforma della tassazione dei profitti delle multinazionali che è all’ordine del giorno Ocse e che ha ricevuto nuovo impulso dopo la luce verde giunta finalmente da Washington dalla nuova amministrazione Biden, l’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi e l’ex ministro delle Finanze e del Tesoro, Vincenzo Visco, hanno rivolto un appello al presidente del Consiglio Mario Draghi, per sostenere tutti gli sforzi in atto per rilanciare la trattativa che dovrebbe riportare anche i grandi gruppi internazionali sotto l’ombrello di un’equa tassazione.

Il prossimo luglio, dovrebbe vedere la luce un testo di accordo che fissi il gli obiettivi e i paletti entro il quale si dovranno muovere i tavoli tecnici, per arrivare a una normativa compiuta entro la fine del 2021.

Il nodo dell’imponibile e della ripartizione del gettito

I 139 Stati e giurisdizioni che stanno collaborando nel contesto del “inclusive framework”  si stanno accordando sulla necessità di attribuire il diritto di imposizione anche ai mercati di destinazione di beni e servizi prodotti dai grandi gruppi. Sono aree economiche in cui sono localizzati gli utenti delle piattaforme digitali e i consumatori di beni ceduti anche da remoto e che assumono rilievo in quanto riconosciuti come luoghi in cui si crea una parte della ricchezza dell’impresa, pur in mancanza di strutture fisiche sul territorio.

Con la nuova impostazione si guarda quindi al gruppo come ad una impresa unitaria, per poi provvedere a suddividere una quota dei profitti anche in base alla localizzazione dei ricavi. Sia la proposta Ocse che quella Biden prevedono di fare riferimento ai profitti totali a livello globale delle imprese multinazionali, sia al fine dell’attribuzione dei nuovi diritti impositivi che a quello di stabilire un livello minimo di tassazione che la nuova amministrazione Usa propone di fissare al 21%.

Tuttavia è proprio dalle trattative in corso sull’aliquota di riferimento della futura “minimum tax” che arrivano le prime correzioni di rotta. Davanti alle resistenze e ai distinguo, in particolare provenienti dall’Unione europea dove risiedono alcuni degli Stati che praticano la concorrenza fiscale più aggressiva sul piano planetario, l’Ocse stava cercando di trovare la quadra dentro una forchetta di aliquote minime dal 12,5 al 15%. I negoziatori di Biden, dopo lo strappo iniziale al rialzo, hanno proposto un punto di caduta sull’estremo superiore del range profilato a Parigi.  

Un primo aspetto dell’impianto proposto in tema di “minimum tax” comporta che i soggetti passivi sarebbero tenuti a pagare comunque la differenza tra l’eventuale imposizione goduta in un paese a fiscalità agevolata e l’aliquota al 15% a favore del paese dove hanno la residenza legale, riducendo in questo modo, o almeno questo sperano i proponenti, la convenienza da parte delle grandi società ad avvalersi dei “servizi” offerti dai paradisi fiscali.

I complessi accordi in preparazione sono chiamati a confrontarsi, a districare e disinnescare un vero e proprio ginepraio di norme e cavilli congeniato per allontanare le mani del fisco dai dividendi più floridi del mondo.

Il paradiso irlandese

L’Irlanda applica da tempo un’aliquota formale per la “corporate tax” del 12,5%, che corrisponde non a caso all’estremo inferiore della forchetta delineata all’Ocse. Tuttavia, come stabilito fin dal 2018 da uno studio (“The missing profits of nations” pubblicato dagli economisti della Berkeley e dell'università della Danimarca) l'Irlanda è il maggiore paradiso fiscale mondiale e le multinazionali statunitensi ne sono le principali azioniste. Né Gibilterra con la sua tassa sull'impresa al 10%, né le Isole Cayman con una “corporate tax” pari a 0%, risultano maggiormente appetibili del paese del trifoglio per le pianificazioni fiscali più aggressive.

 Il segreto sta nel pacchetto fiscale che offre la giurisdizione irlandese, molto ben strutturato e con diversi vantaggi fiscali. L'Irlanda, negli anni, ha infatti siglato diversi accordi segreti con le maggiori multinazionali per ridurre ulteriormente la percentuale di tasse da pagare, fino ad arrivare in alcuni casi  allo 0,01% di imposte sugli utili prodotti. Un'altra caratteristica estremamente “sexy” per i super consulenti fiscali che fanno abitualmente la spola tra Wall street e Dublino è una strategia molto avanzata di “transfer pricing”, grazie alla quale le multinazionali trasferiscono i profitti delle controllate da giurisdizioni ad alta imposizione fiscale a paesi che hanno una politica molto più accomodante.

Il caso dell’Olanda

Aliquota formale sulle società del 20 o del 25% se i profitti superano i 200mila euro e offerte stracciate e alla luce del sole invece per gli utenti del regime fiscale olandese, particolarmente apprezzato dalle multinazionali italiane pubbliche e private come Eni, Enel, Exor, Fca, Ferrari, Mediaset, Cementir, Luxottica, Ferrero, Campari, Illy, Telecom Italia. Un sistema complesso ma così vantaggioso che tra gli studi di consulenza fiscale girano veri e propri depliant promozionali, dai quali attingiamo qualche elemento informativo più approfondito. La BV olandese (“Besloten Vennootschap“) o la società a responsabilità limitata (“Besloten Vennootschap met beperkte aansprakelijkheid“) sono sicuramente la categoria societaria maggiormente utilizzata in Olanda. La BV olandese, tanto per fare un esempio pratico, è l’equivalente della GmbH tedesca, della LTD in Inghilterra o della Corporation negli Usa. È possibile creare questo tipo di società per tutti i settori tranne quelli bancari e assicurativi, quelli finanziari e di credito al consumo e le agenzie di collocamento.

La BV olandese è ancora oggi uno dei tipi societari più popolari da utilizzare come holding in strutture internazionali. Il motivo principale legato all’utilizzo dell’Olanda come sede di una holding è sicuramente il regime fiscale favorevole per l’incasso di dividendi e plusvalenze estere, ma anche l’eccellente infrastruttura legale e finanziaria del Paese.

Il requisito principale che caratterizza una holding olandese è la possibilità di beneficiare di una esenzione totale da tassazione per dividendi, e plusvalenze, derivanti da azioni di società controllate. Affinché possa applicarsi questa importante agevolazione, devono essere soddisfatte tutte le seguenti condizioni:

1.   La società controllante olandese deve possedere almeno il 5% del capitale sociale nominale versato della controllata (residente o non residente);

2.   La società controllata estera deve essere assoggettata a tassazione nel proprio Paese di residenza con aliquota almeno pari al 10%. Questo, anche se l’attività economica principale della società controllata è la gestione passiva di partecipazioni;

3.   Infine, la partecipazione detenuta dalla controllante olandese deve essere duratura e stabile. Non deve trattarsi di un investimento “di portafoglio“.

In circostanze particolari, una partecipazione inferiore al 5% può beneficiare anche dell’esenzione dalla partecipazione (ad esempio, la proprietà indiretta di almeno il 5% attraverso una parte correlata o una proprietà inferiore al 5% a seguito di una vendita di azioni in tranche). In questo caso, per beneficiare dell’agevolazione è necessario che l’investimento sia in una società che svolge la stessa attività del gruppo e la partecipazione deve essere considerata “strategica“.

Difficile competere con questi sistemi fiscali anche con l’aliquota minima portata al 15% e applicata in futuro anche alle partecipate, per un paese come l’Italia dove le imposte sulle società sono fissate al 24% e alle quali va aggiunta l’aliquota Irap al 4%, calcolata su una base imponibile diversa e più ampia. 

Il ruolo e l’interesse dell’Italia

Proprio la ricerca del criterio da concordare per stabilire quali profitti incidere con la nuova aliquota  è uno dei temi più spinosi e sfuggenti al tavolo di Parigi. Il cittadino comune troverebbe logico applicare la formula che dovrebbe valere sia per il salumiere che per Apple: utili uguale ricavi meno costi. Ma dove l’aria si fa più rarefatta, dalle parti dei paradisi fiscali appunto, il ragionamento si fa più raffinato e complesso. Finora gli “extraprofitti” globali, considerati tali rispetto ai profitti rutinari tassati nei paesi di residenza delle “ultimate company”, sono regolarmente sfuggiti al fisco e divenuti “apolidi” all’ombra delle palme di qualche isoletta del Pacifico, di Cipro o di un austero palazzone in Lussemburgo.

Le posizioni condivise tra i paesi Ocse a livello di “Inclusive Framework” prevedono due diverse direzioni d’intervento chiamate Pillar 1 e Pillar 2.

Come spiega l’Assonime in una circolare, il focus del Pillar 1 è incentrato sull’allocazione dei profitti, ossia sulla ricerca di un nuovo criterio di collegamento territoriale idoneo ad attribuire alle cosiddette “market jurisdictions” i diritti impositivi su una quota degli utili di un’impresa multinazionale che interagisce economicamente e trae valore da tali giurisdizioni pur senza una presenza fisica (ossia senza avvalersi in loco di una stabile organizzazione o di una società partecipata). Dopo di che si tratta di cercare regole condivise di ripartizione dei profitti tra tutte le giurisdizioni interessate.

Il Pillar 2 ha, invece, l’obiettivo di contrastare le pratiche di erosione e distoglimento delle basi imponibili che, come abbiamo visto, tuttora sopravvivono nonostante la progressiva implementazione delle varie misure correttive già messe in campo. Ci si riferisce in particolare, ai rinnovati criteri interpretativi del “transfer pricing”, alle regole CFC e ai regimi degli ibridi e degli interessi passivi.

In conclusione l’interesse dell’Italia, in questa trattativa che si sta sviluppando sul piano globale e europeo in un momento in cui il paese è impegnato in un  drammatico sforzo di rilancio del welfare, della sanità e dell’economia nazionali, è duplice: ridurre e se possibile azzerare la convenienza delle imprese maggiori, fin qui riscontrata anche tra i grandi gruppi nazionali, a trasferire la sede fiscale all’estero  e portare nelle casse dell’erario il gettito proveniente dalla tassazione dei rilevanti profitti delle multinazionali realizzati nella sua giurisdizione, lanciando anche in questo modo un forte e significativo segnale agli evasori.  

 

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