La decisione della Commissione di proporre al Consiglio europeo un Recovery Fund di 750 miliardi di euro è fortemente innovativa, forse addirittura di portata storica. In proposito alcuni, probabilmente in un eccesso di ottimismo, hanno parlato di un Hamilton moment, vale a dire dell'inizio di un processo che dovrebbe portare alla condivisione dei debiti e della politica economica europea. Può quindi essere utile ragionare su come le attuali vicende vengono interpretate da settori importanti dell'opinione pubblica e dell'establishment tedeschi. A tal fine particolarmente interessante è un articolo di Hans-Werner Sinn pubblicato dal «Project Syndicate» qualche settimana fa. Sinn è uno dei più importanti, noti e influenti economisti tedeschi, ordoliberista in economia e conservatore in politica, che commenta la recente sentenza della Corte costituzionale tedesca che ha accusato la Bce di essere andata oltre il suo mandato e la Corte di giustizia europea di avere legittimato i comportamenti della Bce, contrari ai trattati, usando argomentazioni arbitrarie. Sinn riconosce che nella gerarchia delle fonti la Cge ha un potere prevalente sulle Corti costituzionali dei Paesi membri in materia di politica monetaria, ma ribadisce che tale preminenza non esiste se la politica monetaria eccede i suoi compiti, determinando effetti di natura fiscale, riducendo i tassi di interesse dei Paesi più indebitati, incoraggiandoli così a fare altri debiti, e danneggiando i risparmiatori e le compagnie di assicurazione tedesche. Sinn ricorda come negli Stati Uniti la Fed in diverse occasioni non è intervenuta ad acquistare il debito di singoli Stati in serie difficoltà finanziarie, evitando così di diminuire lo sforzo fiscale che questi Stati erano tenuti a fare per evitare la bancarotta. Sinn infine ricorda che l'Unione europea non ha le caratteristiche che contraddistinguono uno Stato sovrano, è un'unione di Stati in cui il potere risiede negli Stati. Si tratta del ragionamento tradizionale in base al quale la Germania si è sempre opposta a ogni ipotesi di condivisione dei rischi e promosso le politiche di austerità, e i rappresentanti della Bundesbank all'interno della Bce hanno sempre votato contro il Qe di Draghi. Questo ragionamento tuttavia non regge a un'analisi meno formalistica e più attenta. Innanzitutto stabilire i confini tra politica monetaria e politica fiscale è molto difficile se non impossibile sul piano logico: ciascuna politica interferisce inevitabilmente sull'altra; per esempio un aumento dei tassi di interesse da parte della Bce per contenere una possibile inflazione (ipotesi di scuola nella situazione attuale), provocherebbe un rallentamento delle attività economiche con conseguenze sui bilanci pubblici dei singoli Paesi. Inoltre tra i mandati della Bce vi è quello fondamentale del buon funzionamento del sistema dei pagamenti della zona euro, e della corretta trasmissione dei meccanismi della politica monetaria tra i diversi Paesi, il che comporta la necessità di impedire divaricazioni eccessive dei tassi di interesse che potrebbero disarticolare l'eurozona e portare al suo dissolvimento. Né vale il paragone con le obbligazioni emesse dai singoli Stati americani. Negli Stati Uniti la Fed per esercitare la sua gestione della politica monetaria vende e acquista direttamente i titoli del Tesoro americano, titoli che in Europa non esistono, per cui la Bce non può far altro che intervenire sui titoli pubblici dei singoli Paesi. Ed è questo il motivo per cui la Corte europea ha riconosciuto il Qe come legittimo esercizio della politica monetaria. Ma queste sono argomentazioni polemiche e posizioni note. Ciò che è più importante, invece, è quanto Sinn dice a proposito della crisi del coronavirus e dell'Italia, riconoscendo che nella situazione che si è creata sarebbe legittimo non solo che i Paesi europei aiutassero l'Italia mediante trasferimenti volontari, ma anche che gli Stati membri decidessero di aumentare il bilancio europeo per sostenere gli italiani in questa difficile circostanza. Quindi per Sinn il Recovery Fund sarebbe legittimo e rientrerebbe nelle normali prerogative dell'Unione (anche se è probabile che riterrebbe eccessive le dimensioni proposte dalla Commissione). Ma se ciò non bastasse, dice Sinn, per l'Italia non resterebbe che la via di una moratoria sul debito secondo le regole del club di Parigi, e, come nel caso della Grecia, il controllo dei movimenti dei capitali, ecc. Tuttavia, conclude Sinn, sarebbe opportuno e auspicabile che gli Stati Europei procedessero verso una vera Unione politica. Ma tale Unione non può avere inizio mettendo in comune "la borsa"", bensì mettendo in comune l'esercito e gli armamenti (inclusi gli armamenti nucleari francesi), unica base reale della sovranità di un Paese o di una Federazione di Paesi. Non sarebbe giusto conclude Sinn, che alcuni Paesi pagassero, mentre altri manterrebbero il potere militare. Le carte sono quindi sul tavolo: si può procedere verso l'Unione politica, la mutualizzazione dei debiti, e lo politica fiscale comune a condizione che gli esiti politici della seconda guerra mondiale siano superati definitivamente. C'è indubbiamente una logica in queste richieste, ma non si tratta certo di questioni di facile soluzione. La strada da percorrere è ancora lunga
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