La crescita non passa per il debito ( Il Sole 24 ore del 12 luglio 2017)

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Luglio 2017

La crescita non passa dal debito ( Il Sole 24 ore del 12 luglio 2017)

Di Pier Luigi Ciocca e Vincenzo Visco 

I brani del capitolo del libro di Matteo Renzi che Il Sole 24 Ore ha pubblicato meritano qualche commento. Non tanto per l’aspetto di contestazione dell’Europa e di alcuni suoi rappresentanti (e in proposito può dirsi che si può rifiutare l’inserimento nei trattati del fiscal compact con argomenti fondati, senza eccessi verbali, che sicuramente non saranno apprezzati), quanto per il modello di sviluppo economico che emerge dal ragionamento svolto.

Si ipotizza che, invece del pareggio di bilancio, l’Italia aumenti il suo deficit fino a sfiorare il 3% del Pil, e che il maggior disavanzo venga utilizzato per 5 anni per finanziare una riduzione delle imposte. In questo modo si rilancerebbe la crescita e il debito si ridurrebbe. In sostanza ogni anno il disavanzo, e quindi il debito, aumenterebbe rispetto all’attuale di circa mezzo punto di Pil (7-8 miliardi); perché il rapporto debito Pil non cresca, anzi si riduca, quest’ultimo dovrebbe aumentare in termini nominali intorno al 4%. Dato che l’inflazione difficilmente raggiungerà il 2% nei prossimi tempi, la crescita reale dovrebbe risultare di più di 2 punti percentuali l’anno, cosa del tutto improbabile dal momento che l’effetto di una riduzione delle imposte sul Pil è inferiore all’unità, come peraltro si è visto e sperimentato con le politiche degli ultimi anni.

Ci troveremmo quindi con maggior debito, maggior disavanzo e stessa crescita stentata, con la conseguente reazione negativa dei mercati che ci chiedono non una riduzione delle tasse, bensì, nei limiti del possibile, una diminuzione della spesa. Ne deriverebbero l’isolamento in Europa e l’aumento dello spread.

Come abbiamo più volte indipendentemente sottolineato, le politiche necessarie dovrebbero essere completamente diverse: niente tagli alle tasse che non derivino da recupero di evasione o da riduzione della spesa corrente, ma utilizzazione di tutte le risorse disponibili per spese di investimento in infrastrutture materiali e immateriali ad alto moltiplicatore, con positivi effetti sulla produttività, sulla crescita, sull’occupazione, e in grado di autofinanziarsi in termini relativamente brevi.

Se tale politica fosse stata seguita negli ultimi anni, in luogo delle politiche di riduzione delle imposte e di sussidi per le nuove assunzioni seguite, i risultati sarebbero stati ben migliori: una crescita doppia di quella che si è realizzata, un disavanzo nel 2016 pari all’1,6% invece che al 2,4%, calo del debito pubblico rispetto al Pil di 2,5 punti. Il tutto all’interno dei vincoli europei.

Dopo aver constatato gli esiti di scelte errate di politica economica, insistere sulla stessa linea appare alquanto masochista.

Non è chiaro inoltre quale sia il programma di dismissioni di cespiti patrimoniali a cui il Governo sta lavorando. In apparenza sembrerebbe trattarsi di un (ennesimo) programma di cartolarizzazione di immobili secondo un approccio già sperimentato senza particolare successo dai governi Berlusconi (ricordate la finanza “creativa”?) che da un lato non può fornire molti proventi, a meno di non inserire nel programma di dismissione i beni culturali, e dall’altro può portare a risultati paradossali (già visti) come essere costretti a pagare affitti superiori agli interessi che sarebbero necessari per riacquistare il bene appena ceduto.

Purtroppo i problemi dell’economia italiana sono seri e vengono da lontano e si manifestano nella bassa crescita condizionata dal lato dell’offerta da una produttività stagnante dovuta prevalentemente a carenza di investimenti pubblici e privati. A questa carenza si uniscono anche altri motivi di insufficienza della domanda, aggravata dalle politiche di austerità. Rispetto al 2009 gli investimenti pubblici si sono ridotti di 20 miliardi di euro. Questo vuoto va colmato. Per quanto riguarda gli investimenti privati, le imprese non sono indotte a investire, mosse dall’aspettativa di profitti facili grazie alle politiche del cambio, alla moderazione salariale, e agli incentivi generosamente concessi dal governo.

Nella situazione attuale, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono ulteriori riduzioni delle imposte in disavanzo che non si tradurrebbero in maggiori investimenti.

Il governo e chi lo consiglia dovrebbero finalmente riflettere seriamente su questi problemi.

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