Prima della seconda ondata dell’epidemia il FMI stimava che nel 2020 il Pil globale si sarebbe ridotto fra il 3 e il 5%: è bene ricordare che la contrazione successiva alla crisi finanziaria del 2007-08 fu invece solo dello 0,1%. Per il 2021 si prevedeva un rimbalzo consistente, senza che l’economia mondiale tornasse però ai livelli pre- Covid. La perdita in termini di Pil tra il 2020 e il 2021 avrebbe potuto raggiungere i 9.000 miliardi di dollari, un ammontare superiore al Pil delle economie di Giappone e Germania messe insieme. L’attuale ripresa dei contagi aggraverà la recessione per l’anno in corso, e allungherà i tempi di recupero delle economie negli anni a venire. Un disastro vero e proprio. Per la zona euro era prevista una contrazione dell’8-9% nel 2020, e un rimbalzo del 6,1 nel 2021. Ma anche questa previsione è diventata inattendibile a causa della recrudescenza dell’epidemia. Fra i Paesi sviluppati solo la Corea del Sud, Taiwan e pochi altri (e la Cina che però è una storia a parte) hanno limitato i danni in quanto sono stati in grado di affrontare l’emergenza forti di precedenti esperienze e con sistemi di tracciamento e controllo efficaci, non confrontabili con quelli introdotti in occidente, volontari e condizionati dall’individualismo prevalente e dalle assurde ossessioni delle autorità a tutela della privacy. In buona sostanza, in occidente la tutela delle libertà individuali è stata considerata più rilevante della difesa dell’interesse collettivo (salute ed economia). Può apparire una valutazione estrema, ma è esattamente quello che è avvenuto. Ciò dovrà essere motivo di riflessione soprattutto nel contesto della rivalità Usa/Cina: la superiorità del modello asiatico in questo frangente è risultata evidente.
In Italia la caduta del Pil nel 2020 viene prevista nel 9% circa, inferiore a quello che si temeva, e la ripresa viene ancora valutata, per il momento, intorno al 6% nel 2021, ma sarà presumibilmente di molto inferiore. Poiché l’Italia è l’unico Paese tra quelli sviluppati che non ha ancora recuperato i livelli di reddito precedenti alla crisi del 2007, l’impoverimento ulteriore dovuto alla crisi del coronavirus determina una situazione sociale particolarmente grave.
Gli interventi operati dai Governi e dalle banche centrali sono stati tempestivi e consistenti ed hanno evitato il collasso definitivo delle economie. In particolare gli interventi finora varati sono stati molto consistenti, in particolare negli Stati Uniti, ma anche in Europa. L’Italia, nonostante la precarietà dei suoi conti pubblici, è stata uno dei Paesi che ha speso di più per contrastare gli effetti dell’epidemia: sei punti di Pil, destinati ora a crescere per la recrudescenza dell’epidemia, e ciò ha probabilmente contribuito ad evitare un più elevato crollo dell’economia. Tuttavia la pandemia ha prodotto in Europa dei cambiamenti rilevanti, che all’inizio dell’anno in corso sembravano impossibili, sia per quanto riguarda l’azione della BCE che per quanto riguarda le politiche fiscali nazionali (sospensione del patto di stabilità, delle norme sugli aiuti di Stato, ecc.). In particolare la BCE ha finanziato l’extra debito determinato dalle spese in disavanzo dei Paesi della zona euro, acquistando sul mercato secondario i titoli emessi dagli Stati e sterilizzando e monetizzando il debito relativo, per cui, per esempio, oggi il sistema europeo delle banche centrali detiene circa il 30% del debito pubblico italiano. A livello di politica fiscale per la prima volta l’Unione ha accettato di emettere debito comune per finanziare il rilancio economico secondo una strategia unitaria europea. Per l’Italia il Recovery Fund, o più precisamente il Next Generation Fund, prevede la disponibilità di 209 miliardi concessi in parte come dazioni a fondo perduto (oltre 60 miliardi), e in parte come prestiti trentennali a tassi di interesse trascurabili. Ciò ha dato la sensazione della disponibilità di risorse illimitate da utilizzare per qualsiasi esigenza e per colmare ritardi ormai cronici nella dotazione del Paese di investimenti strategici in molteplici settori. Le cose però stanno diversamente. Innanzitutto le erogazioni ai singoli Paesi potranno avvenire in concreto non prima della metà del 2021, salvo anticipi di ammontare limitato. I prestiti saranno condizionati e soggetti a monitoraggio. Inoltre sarà necessario individuare le nuove risorse (imposte?) che dovranno essere trasferite al bilancio europeo per finanziare il servizio del debito comune. Infine il ricorso alle risorse finanziarie diverse dai grant implica un aumento di debito pubblico per il Paese richiedente, il che per un Paese come l’Italia che ha raggiunto quasi il 160% nel rapporto debito/Pil appare comunque problematico. E infatti nella recente NADEF il Governo aveva previsto di aumentare gli investimenti utilizzando soprattutto le erogazioni a fondo perduto che non aumentano il debito, e rinviando il ricorso ai prestiti, ponendosi invece l’obiettivo di ridurre il debito pubblico dal 158% del 2020 al 151,5% nel 2023, anno in cui il disavanzo pubblico dovrebbe ritornare al fatidico 3%. ora tutto diventa ancora più complicato. Ciò evidenzia limiti e contraddizioni dell’intera operazione Next Generation Fund. Se l’obiettivo è quello di aumentare in alcuni anni gli investimenti europei di 750 miliardi di euro per rilanciare l’economia e l’occupazione, bisognerebbe creare le condizioni perché tutti i Paesi possano procedere senza condizionamenti, e soprattutto senza la preoccupazione dei vincoli che deriverebbero dalla riattivazione del patto di stabilità e dalla crescita del debito pubblico. Ciò vale per tutti i Paesi, ma soprattutto per quelli della zona euro, e in particolar modo per l’Italia. Altrimenti vi è il rischio che i nuovi prestiti vengano utilizzati prevalentemente per sostituire investimenti che si sarebbero fatti comunque o non vengano utilizzati affatto. In altre parole sarebbero necessarie innovazioni istituzionali rilevanti, quali l’adozione della golden rule per gli investimenti al posto del patto di stabilità, e la garanzia che l’aumento del debito non crei difficoltà ai Paesi sui mercati finanziari. Se non si creano queste condizioni l’intera operazione rischia di non produrre i risultati sperati.
Da questo punto di vista sarebbe opportuno che il debito attualmente collocato presso il sistema delle banche centrali europee venisse sterilizzato definitivamente. La soluzione migliore sarebbe quello di trasformarlo in debito europeo a lunghissimo termine o, eventualmente, renderlo irredimibile.
Le possibilità che ciò avvenga sono al momento scarse, quindi la probabilità che i fondi europei possano determinare una svolta radicale nella situazione dell’economia italiana va per il momento ridimensionata. Va comunque rilevato che al momento attuale le possibilità di finanziamento del nostro Paese sul mercato sono particolarmente favorevoli. Il tasso di interesse all’emissione per i nostri titoli decennali è oggi inferiore all’1% (0,8%), il che può fornire margini di manovra importanti, e anche sdrammatizzare il dilemma Mes sì/Mes no che è ancora al centro del dibattito politico attuale. In ogni caso, le difficoltà principali riguardano la possibilità dell’Italia di utilizzare proficuamente le risorse disponibili, data la nostra strutturale incapacità di progettare, programmare e spendere. Sarebbe quindi particolarmente utile ragionare sull’ipotesi di creare un’apposita Agenzia per selezionare i progetti e programmare la spesa effettiva dei fondi provenienti dal Recovery Fund, come propone Giorgio La Malfa, introducendo modifiche legislative di emergenza che aiutino a superare i nostri attuali limiti operativi. È quindi molto probabile che il Governo preferisca utilizzare i fondi per trasferirli alle imprese private che sono in grado di operare con maggiore rapidità ed efficacia. In questa situazione, tuttavia, appare alquanto stravagante ipotizzare la destinazione di risorse ingenti ad interventi di riduzione delle imposte o di aumento delle spese correnti, come pure si intende fare. In sostanza la strada appare tutta in salita, tenendo conto del fatto che, salvo rilevanti modifiche negli assetti della governance europea, solo un effettivo e duraturo aumento della crescita italiana può portarci fuori dal rischio di una crisi finanziaria negli anni prossimi.
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